Le carte di Propp
La narratologia è una definizione di Tzvetan Todorov, che in questo modo la battezzò alla fine degli anni sessanta nella Grammaire du Décaméron (Paris, Mouton, 1969): ma la complessa epistemologia di una disciplina destinata a lasciare il segno anche nella scuola italiana si deve a Vladimir Propp che, a partire dalla Morfologia della fiaba, andò a decostruire la struttura del racconto popolare fino ad estrapolarne il succo in 31 funzioni. Quella che andava nascendo allora era una sorta di tabella periodica degli elementi narrativi, fatta di singole particelle, di atomi del racconto che mischiati insieme potevano edificare intrecci infiniti. Si vide poi che quella architettura della narrazione non era che la versione folklorica di altri possibili tessuti del racconto e poteva estendersi - come in effetti avvenne - alle trame, agli snodi, ai meccanismi della letteratura alta, della cultura letteraria vera e propria e ai generi per eccellenza di questa produzione, vale a dire il romanzo e il racconto.
Nella scuola italiana il divulgatore più significativo di questa tendenza è stato Angelo Marchese che ha contribuito con testi e manuali anche pregevoli e accurati. Diverso è stato il caso dei suoi molteplici imitatori, soprattutto nelle antologie del biennio, che hanno riempito pagine di analisi del testo alla ricerca della focalizzazione del discorso: con quale risultato? Lo stesso Todorov (La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2008) ha usato l'espressione della letteratura ridotta all'assurdo per richiamare l'attenzione sul parossismo di certi atteggiamenti tipici dell'educazione letteraria post-strutturalista, che si è concentrata più sugli strumenti di analisi che sull'oggetto letterario in sé, perdendo di vista la costruzione generale dell'opera.
Come reinventare, allora, lo spirito di Propp? Come riattivare la dimensione narrativa, anche nella funzione produttiva di creazione di storie, di scrittura creativa, di cura autobiografica? Da quando dell'argomento hanno iniziato ad occuparsene psicologi della formazione e pedagogisti, il tema del narrativo come categoria dell'agire comunicativo ha preso una piega ben diversa: anche gli storici della letteratura se ne devono essere accorti, e hanno gridato (in Italia) allo scandalo, temendo un'ingerenza delle scienze umane nel campo della letteratura. "Che cosa in realtà si guadagna - scrive Jerome Bruner (La cultura dell'educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 145) - e che cosa va perduto quando si dà un senso al mondo raccontando storie su di esso, usando il metodo narrativo per interpretare la realtà?" Il pensiero narrativo è dotato di una sua logica del discorso che spiega, definisce e comprende la realtà che ci circonda: raccontare storie è perfino un comportamento adattivo della specie umana, stando almeno alle tesi di Jonathan Gottschall (The Storytelling Animal: How Stories Make Us Human, Indianapolis, Houghton Mifflin Harcourt, 2012). Jonathan Gottschall è un giovane ricercatore che insegna nel dipartimento di inglese al Washington & Jefferson College: autore e curatore di alcuni libri, egli è una delle figure di primo piano in quello specifico settore che si occupa del rapporto e del divario tra discipline umanistiche e scienze umane. Sebbene abbia svolto un dottorato in letteratura inglese, il suo relatore di tesi è stato l'eminente biologo evoluzionista David Sloan Wilson. Secondo Gottschall le storie accrescono la nostra empatia, la nostra capacità di condividere esperienze in modo etico e collaborativo: non solo il mondo e la realtà sono leggibili, come un grande libro della natura, ma sono raccontabili attraverso una disposizione naturale che viene affinata poi con le tecniche, con le retoriche del linguaggio, attraverso le regole del discorso. Il gioco di finzione, il gioco di ruolo nella sua accezione simbolica, sono comportamenti che avrebbero una naturale prosecuzione nella fiction e nella costruzione di quei mondi virtuali e di quelle sovra-realtà che animano il romanzo.