Collaborative learning e comunità di apprendimento

Di apprendimento collaborativo si parla e si discute fin dalle prime esperienze dell’attivismo pedagogico: il tema della didattica collaborativa e cooperativa viene ampiamente ripreso da Freinet, ma anche da Paulo Freire in America latina, ed è stato accolto in Italia – ad iniziare dai primi anni cinquanta del secolo scorso – dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) e da maestri di punta come Mario Lodi e Bruno Ciari, tra i primi a riflettere, con i loro laboratori tipografici, sul funzionamento e sul dispositivo tecnologico del medium-libro. In effetti, fin dagli inizi l’MCE si configurò come una ricca comunità di esperienze in divenire, non senza sbocchi polemici e forti contrapposizioni ideologiche: sia il fronte delle tecniche – all’epoca intese come strumenti, quasi dei prolungamenti dell’insegnamento – sia la dimensione laboratoriale e collaborativa dell’esperienza apparivano segnati dalla lezione di Dewey, riletta indubbiamente, ad esempio da Bruno Ciari, anche alla luce del magistero gramsciano, e contenevano già tutti gli ingredienti tipici delle comunità di apprendimento partecipativo, a formare quel “curriculum per la democrazia che si nutre di ‘cooperazione’ e di ‘spirito scientifico’” . Nel mettere l’accento sulle tecniche, sulle tecnologie, sui sussidi didattici, l’MCE è stato uno degli esempi ante litteram di una didattica capace di prendere visione, nell’Italia del secondo dopoguerra e a cavallo del boom economico, della complessità che proveniva dalla trasformazione della società contadina e artigianale in quella industriale. Quell’idea partecipativa della scuola e dei suoi organismi è stato senza dubbio un lascito importante – dalla media unica alle battaglie per il tempo pieno – che ha disseminato idee e comportamenti, sedimentato tradizioni e consapevolezze, configurato metodi e didattiche. Certo, quella gestione collaborativa e cooperativa della vita scolastica avveniva esclusivamente in presenza, come costruzione autonoma di un progetto educativo orientato da scelte ideologiche e politiche, sostituite semmai – dopo il crollo delle ideologie – da una diversa consapevolezza psico-pedagogica e metariflessiva degli insegnanti. Quei supporti tecnologici che l’MCE per primo introdusse nell’osservazione scientifica e nella comprensione della realtà – e che oggi potrebbero comporre una vetrina delle antichità o un museo di storia dei sussidi didattici – erano pensati anche come preliminari di un apprendimento cooperativo e come viatico dei lavori di gruppo e della didattica laboratoriale. Del resto, se le tecnologie hanno fatto il loro ingresso, definitivo e anche pervasivo, nella scuola degli anni ottanta, le “macchine per insegnare” hanno esaurito presto il progetto ambizioso di presentarsi come simulatori e sostitutivi del comportamento umano quando si è percepito il limite che l’intelligenza artificiale mostrava di fronte alla sua incapacità di riprodurre “le modalità umane di ragionamento e di apprendimento” . È stato dunque in questo frangente – in cui si è assistito peraltro ad una progressiva escalation del modello costrutivista – che l’apprendimento collaborativo si è riposizionato in termini nuovi come strumento metodologico da affiancare alle ICT di ultima generazione. xulsolar2Ma qual è il legame tra la costruzione delle conoscenze, il posto che le tecnologie occupano in questo contesto e la cornice di riferimento della formazione tecnologica degli insegnanti? E in che modo le dinamiche dell’apprendimento collaborativo tra docenti in formazione continua è riproducibile nella scuola dei digital natives, assidui frequentatori di comunità virtuali e di media partecipativi? Intanto, enfatizzare l’apprendimento come processo sociale – scrive Antony Kaye – attivando “nuove conoscenze attraverso l’interazione di gruppo e la discussione tra pari, può essere interpretata come una reazione alla visione comportamentista, dove l’apprendimento è visto come un’attività puramente individuale” . L’apprendimento collaborativo si adatta quindi con efficacia ai contesti che pongono attenzione alle attività strutturate sia nei gruppi classe sia nelle attività di educazione degli adulti e nella formazione e aggiornamento professionali. L’approccio collaborativo presuppone una costruzione attiva dei saperi, la loro condivione sulle piattaforme LMS e nei CMS (Content Management System); prevede una modalità che consenta la compartecipazione alla conoscenza e alla produzione di sapere, oltre che la sua acquisizione. A tale riguardo, Calvani sostiene che “la costruzione collaborativa di conoscenza è un ambito destinato a diventare un crocevia di ricerca teorico e la via maestra per nuovi percorsi e metodologie a metà strada tra formazione e lavoro, tra e-learning e Knowledge Management; sarà di interesse strategico comprendere le dinamiche dei gruppi collaborativi online, ciò che li contraddistingue rispetto ai gruppi in presenza, come e quando si possano costituire, alimentare e gestire in modo efficace” . In ogni caso l’apprendimento collaborativo basato sull’apporto delle tecnologie per l’informazione e la comunicazione (CSCL – Computer-Supported Collaborative Learning) costituisce uno dei contesti di maggiore investimento nelle politiche della formazione attuate nell’ultimo quinquennio a livello ministeriale (Classi 2.0; Scuola Digitale; PQM). Lo scenario del CSCL prevede infatti una diffusione dell’apprendimento collaborativo (e cooperativo) sia in ambito scolastico che a distanza, con l’obiettivo di ridurre il gap, e generazionale e metodologico, tra forme di apprendimento ricettivo di tipo frontale e dinamiche aperte alle sollecitazioni multimediali e supportate da piattaforme e-learning e di apprendimento a distanza. Questo approccio offre alla scuola una risorsa indubbiamente preziosa, i cui sviluppi sono tuttora in corso e in crescita anche se difficilmente contenibili, proprio perché in continua espansione nella rete e (soprattutto) scarsamente presidiate da quella mediazione pedagogica che sarebbe invece opportuna in un quadro tanto vivace quanto mutevole: le infrastrutture tecnologiche, e le didattiche che da queste discendono, non sono infatti la garanzia di un apprendimento migliore o più efficace, né offrono certezze sulla qualità dei contenuti e sulla consistenza delle relazioni che si instaurano nelle comunità di pratiche. Se da una parte sarebbe addirittura impensabile emarginare il contributo dei nuovi media dalla formazione curriculare, ripristinando posizioni apocalittiche, demonizzandone il fascino, dall’altra è anche vero che il loro impatto – soprattutto sulla generazione dei digital natives e, più oltre, della touch generation – deve essere adeguatamente supportato e sostanziato da quel presidio pedagogico in grado di azionare un esercizio critico delle modalità di utilizzo e, soprattutto, di rilanciare una sfida alta proprio in quei segmenti della media education, come appunto l’apprendimento collaborativo, che presuppongono adesione, interattività, dimensione cooperativa in rete, sinergie peer to peer e che fanno dialogare sullo stesso piano le comunità degli studenti con quelle degli insegnanti. Ciò che insegnano i nuovi media e le comunità di pratiche, che in gran parte ne sfruttano l’effetto trainante, è 1) la capacità di introdurre velocemente il cambiamento e di misurarne i risultati, anche attraverso meccanismi di facile acquisizione; 2) di generare processi di crescita professionale attraverso la grande risorsa della rete; 3) di replicare quelle metodologie nella propria classe, ai propri alunni; 4) di prolungare l’effetto scuola dalla classe reale a quella virtuale, con i blog, la scrittura wiki, i gruppi in rete, ilo podcasting, un sito web. Un fenomeno oltremodo significativo di questa fase, in quanto intercetta le potenzialità di internet e il bisogno di nuove forme di aggregazione professionale anche all’interno della scuola, è quello delle comunità virtuali di apprendimento (VCL: Virtual Learning Community). Sorte in maniera spontanea nella rete, le VCL oggi rappresentano uno strumento chiave per comprendere l’evoluzione tecnologica delle comunità di pratiche e degli ambienti di apprendimento collaborativo. Esse si contraddistinguono, come nota Calvani, “per alcuni aspetti comuni, quali la valorizzazione dell’allievo e della sua autonomia. La concezione costruttivistica, la forte attenzione alla relazione, ma allo stesso tempo accolgono anche vincoli e dispositivi che ne caratterizzano la particolare curvatura formativa” . Alla base di questa tendenza vi è innegabilmente la spinta a ripristinare – attraverso il terreno dell’apprendimento collaborativo e cooperativo – occasioni di legame sociale e di costruzione delle conoscenze all’interno di un ambito allargato che comprenda un nuovo modello di scuola e una diversa capacità di progettare nella dimensione dell’e-learning lo sviluppo professionale dei lavoratori della conoscenza, in primis gli insegnanti. Prodotto del cambiamento avvenuto nel contesto della modernità liquida, segnata dal tramonto di un’idea forte della partecipazione comunitaria – le comunità virtuali si sono affermate nelle modalità più diverse e con implicazioni non soltanto educative. All’inizio di questo fenomeno si è posto l’accento perfino sul carattere “politico” delle comunità virtuali: esse si configurerebbero come espressione di una nuova forma di democrazia diretta e come una modalità di appartenenza essenzialmente basata sulle scelte dei singoli soggetti e sulle tipologie di interazione comunicativa la rete offre loro. Un’interessante lettura di questo aspetto ha colto, alla fine degli anni novanta del secolo scorso, anche gli aspetti politici delle comunità virtuali, il loro esercizio quotidiano sul terreno della democrazia diretta: un’interpretazione profetica, se pensiamo allo sviluppo dei social networks nei paesi in via di sviluppo e al ruolo che le reti sociali svolgono anche come semplici canali d’informazione nei regimi totalitari, nella gestione dal basso della libertà di espressione. Che cos’è, allora, una comunità virtuale, si chiedeva Tomás Maldonado in Critica della ragione informatica? “È giusto considerarla, come si fa di solito, un importante fattore di rinnovamento della democrazia? Come si concilia l’idea di comunità virtuale, che si fonda sulla parzializzazione, con quella del villaggio globale, che mira invece all’universalizzazione? E in caso che il villaggio globale non sia altro, come qualcuno sostiene, che una comunità virtuale per così dire allargata, una sorta di comunità virtuale planetaria, come avviene il salto da un livello a un altro?” I limiti di queste recenti architetture della rete sono oggetto peraltro di una complessa e articolata letteratura: sull’argomento, Calvani ha operato una ricognizione interessante sulle stesse tipologie e caratteristiche del fenomeno, soffermando in particolare l’attenzione sulle sfumature che legano e intrecciano il “dispositivo sociale” delle comunità di apprendimento con il costrutto della comunità di pratiche, orientato – quest’ultimo – a riconfigurare l’intero setting della cultura professionale delle organizzazioni . La comunità di pratiche sottintende spesso un lavoro sottotraccia e non riconosciuto in quegli insegnanti che fanno ricerca e che promuovono con passione la crescita costante della propria professionalità: lo spazio virtuale di internet permette di reinventare il legame sociale nella misura in cui l’apprendere diventa reciproco e la dimensione cognitiva è anche, e soprattutto, espressione di una ricchezza collettiva e condivisa, dunque sociale. Le implicazioni etiche di questa nuova fenomenologia del soggetto sono evidentemente di grande portata: perché il dialogo può in effetti avvenire sul piano delle conoscenze, sulla loro circolazione globale e perfino locale nel piccolo gruppo dei colleghi di lavoro. Non si dimentichi, infatti, che le prime manifestazioni di comunità di apprendimento collaborativo avvennero in ambito lavorativo per migliorare la produttività, risolvere problemi, trovare soluzioni condivise. “Le comunità virtuali, – scrive a tale riguardo Paolo Ferri – se si integrano e non si sostituiscono alle relazioni sociali proprie del mondo “reale”, possono rappresentare una nuova modalità dell’agire comunicativo, in grado di potenziare e forse anche rendere più aperto e democratico il sistema delle relazioni comunitarie, sociali e istituzionali, all’interno del quale ciascuno di noi è inserito” . Le infrastrutture digitali non hanno ancora pienamente ottenuto – nella scuola italiana – quella autorevolezza e quel riconoscimento che hanno invece, e da tempo, nei comportamenti e nelle abitudini degli studenti che la frequentano: è questo un rischio molto elevato, in termini educativi, se si pensa al richiamo che i nuovi media esercitano sulla generazione dei nativi digitali. Per gli insegnanti si tratta di un’occasione importante per avviare un effettivo confronto con la complessa offerta dei media digitali: ma il divario è certamente marcato, generazionale più che cognitivo. Il presidio educativo che gli insegnanti dovrebbero esercitare sui media può avvenire attraverso logiche decostruttive e indagini critiche, ma infine si deve scendere sul loro terreno dove questo è praticabile con gli stili della didattica, con l’estro e la creatività che risemantizzano i saperi e la loro narrazione, con il senso di una partecipazione collaborativa che restituisca la capacità di una visione consapevole del proprio essere digitali.

[1]. Su  questo cfr. F. Cambi, Ciari: un educatore/pedagogista di ieri? Fra  storicizzazione e attualità possibile, in E. Catarsi (a cura di), Bruno  Ciari e il riordino dei cicli, Tirrenia, Edizioni Del Cerro, 2001, p. 30.
[2]. A. Calvani, Rete, comunità e conoscenza. Costruire e gestire dinamiche collaborative, Trento, Erickson, 2005, p. 172.
[3]. A. Kaye, Apprendimento collaborativo basato sul computer, in “TD”, 4, 1994, pp. 9-21 (http://www.itd.cnr.it/tdmagazine/PDF04/Kaye.pdf: ultima consultazione  15 febbraio 2011)
[4]. A. Calvani, Rete, comunità e conoscenza. Costruire e gestire dinamiche collaborative, cit., pp. 9-10.
[5]. A. Calvani, ivi, p. 9.
[6]. Cfr. T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 19.
[7]. Cfr. A. Calvani, Rete, comunità e conoscenza. Costruire e gestire dinamiche collaborative, cit., pp. 54-59.
[8]. P. Carbone e  P. Ferri (a cura di), Le comunità virtuali, Milano. Mimesis edizioni, 1999, p. 79.