Il curricolo di italiano

Scomparsa del tutto una lettura problematica della letteratura italiana, affidata ovviamente alla laboriosa solerzia dei manuali scolastici, cosa resta nelle Indicazioni nazionali dei licei previste nell’ultima variazione normativa? Due aspetti: la completa demolizione – perfino e soprattutto nella terminologia, nell’impianto progettuale, nella filosofia di fondo – del modello “Brocca”, che era stato proposto e quindi filtrato nella scuola attraverso il canale delle sperimentazioni alla fine di una complessa stagione di riscritture dei programmi d’italiano. Una stagione, peraltro, sulla quale avevano esercitato significative suggestioni le esperienze di rinnovamento dei libri di testo e le discussioni che erano seguite all’uscita di un’opera come Il materiale e l’immaginario. L’altro aspetto da segnalare è la ripresa della forma-programma sulla falsariga dei programmi emanati nel 1944 dalla Sottocommissione Alleata dell’Educazione e sopravvissuti fino a noi, ad esempio nei licei classici in cui non erano state avviate sperimentazioni di alcun tipo. Quei decaloghi, emanati dal gruppo di lavoro presieduto da Carl Washburne e depurati della retorica fascista, erano in sostanza ancora quelli ammessi dal ministro De Vecchi nel ’36. Ferma restando la piena autonomia degli insegnanti di disegnare percorsi e curricula certamente piú articolati delle prescrizioni fornite dalle Indicazioni nazionali, uno degli aspetti piú rilevanti su cui varrà la pena di fare alcune considerazioni è quello della costruzione del canone letterario, della rilevanza che esso può avere a livello di formazione/istruzione soprattutto nel secondo biennio e nell’ultimo anno dei licei. La funzione modellizzante e tassonomica del canone letterario proposto dai programmi scolastici è sempre stata una questione centrale in ogni tentativo di riforma del ciclo secondario. Tuttavia la ricerca letteraria degli ultimi tre decenni ha posto sull’argomento una serie di argomentazioni e fornito molti contributi di riflessione – peraltro ignorati da queste Indicazioni – che hanno allargato il concetto di canone, secondo l’ormai classica accezione di Bloom. Quel modello-florilegio che il critico americano aveva teorizzato nel Canone occidentale diviene esigenza di autocomprensione che la letteratura compie sopra se stessa in nome di un codice estetico e stilistico, oltre che identitario e nazionale. “Un canone è in rapporto all’identità di una nazione”, scrive Bigazzi (2004): è una sorta di autofondazione che la civiltà letteraria di un paese esercita sul proprio patrimonio per consegnarlo, quindi, alla traditio, alla tradizione. E lo fa soprattutto attraverso la scuola e i suoi strumenti: la lettura, il commento, la forma-libro, la scrittura. Così è stato per il canone letterario italiano, che in pillole viene poi a confluire anche nei programmi scolastici e, in Italia, si lega profondamente ad un’impostazione storicistica, desanctisiana prima e crociana poi, come esito di una rielaborazione che avviene in epoca postromantica e dentro la fondazione dello stato unitario. “Da codice unico, selettivo e repressivo, quale prima era, – scrive Fausto Curi – il canone tende a trasformarsi in una poetica dominante; anzi, divenuta impossibile la costrizione autoritaria che vincolava a un unico modello, e l’idea stessa che un solo paradigma possa imporsi a tutti con la sua autorevolezza, si accresce l’antagonismo fra uno scrittore e l’altro, fra una poetica e l’altra. Di canone nel senso bembesco del termine, insomma, non è piú possibile parlare, sia perché è contestata l’unicità del modello, sia perché la nuova cultura illuministico-romantica, elaborando nuovi valori, esige nuovi, moderni e piú flessibili paradigmi” (Curi: 1997, 501). Ma il canone necessita, oggi e per la scuola del futuro, di aggiornamenti e di riscritture, di riadattamenti e di contaminazioni (tra generi, tra gli autori, nelle categorie e nelle esperienze artistiche che incrociano la letteratura) poiché la conoscenza di un elenco di autori non può essere sufficiente da solo a restituire la comprensione della complessità linguistica e letteraria. Il canone ha bisogno di essere rivitalizzato con il sostegno di una problematizzazione dell’esperienza letteraria, con il suo atlante storico-geografico – ad esempio; come pure nella direzione del soggetto, ovvero nella prospettiva individuale e intellettuale della fondazione del laico, del ruolo dell’uomo di lettere e del suo rapporto con il potere, con le istituzioni, con la società civile. Brevemente, il primo caso. Per molti decenni lo studio della letteratura italiana è stato fortemente caratterizzato da un’impostazione storicistica, unilineare. Questo modello storiografico ha avuto grande fortuna presso larghi strati della nostra cultura e del pubblico scolastico: un successo dovuto al pregio innegabile di poter racchiudere, dominare e organizzare l’intero processo storico e sociale dell’esperienza letteraria. La stessa articolazione del canone è avvenuta nella cornice di una esplicita interpretazione storica. Tuttavia, a partire dai significativi contributi di Carlo Dionisotti, si è affermata definitivamente l’idea di una modularità “storico-geografica” della letteratura italiana in cui, accanto alla partizione diacronica e progressiva degli autori, dei movimenti e dei generi, si colloca anche l’analisi sincronica di singole esperienze, di aspetti specifici e trasversali, di ibridazioni. In particolare, lo studio “geografico” del sistema letterario italiano ha messo in risalto una interna dinamicità che non si ritrova nelle altre letterature europee, con il risultato che soltanto attraverso una scomposizione di questo fenomeno è possibile attuare un’indagine davvero piú penetrante della nostra letteratura. Con ciò non vogliamo negare l’importanza che ha assunto il modello storiografico desanctisiano nel dibattito intorno alla scrittura della “storia della letteratura”: anzi, proprio in risposta alla deflagrazione tematologica di alcuni significativi manuali scolastici, alcune iniziative editoriali di notevole pregio – dalla Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni, a quelle dirette da Giorgio Bárberi Squarotti per la Utet e da Enrico Malato per la Salerno – stanno tornando al paradigma desanctisiano, pur con sostanziali modifiche, integrazioni e correttivi, segno quindi di una ritrovata coerenza e unitarietà di questo progetto. Resta comunque il fatto di una straordinaria e innegabile frammentazione degli elementi che compongono il mosaico letterario italiano, un tessuto multiforme che comprende fenomeni che interagiscono tra loro: dalle tipologie intellettuali ai luoghi dell’organizzazione culturale, dai modi della produzione e fruizione del testo letterario alle questioni di metodo, dalle forme del testo al ruolo giocato dalla tradizione classica. In un contesto caratterizzato dalla divisione geografica e politica, almeno fino all’Unità nazionale, e da forti differenze interne, sia sul piano socio-economico che su quello amministrativo e burocratico, emerge, nella storia culturale italiana, la presenza e l’articolazione di centri che hanno assunto il ruolo di aggregare e rendere possibile il rapporto tra gli artisti e la committenza, tra gli scrittori e il pubblico, tra gli intellettuali e il potere. Questo rottura del baricentro della civiltà letteraria e del meticciamento inteculturale segnano l’approdo ad una costruzione del curricolo d’italiano che tenga presenti gli apporti e il valore formativo della diversità, dell’eclettismo culturale, del dialogo tra gli scrittori e i generi. Vediamo, in chiusura, il secondo caso. Proporre nel curricolo un percorso sulla funzione dell’intellettuale rappresenta certamente un’occasione importante per comprendere uno dei meccanismi interni della produzione letteraria, e non solo. Quale relazione lega, infatti, l’uomo di cultura al potere, alla committenza, al pubblico? come vive lo scrittore, nella quotidianità, la propria condizione di uomo di lettere? in quali forme elabora i contenuti del suo messaggio? e soprattutto, in che modo egli realizza il principio della responsabilità civile e morale all’interno della società in cui vive e opera? Sono domande sulle quali è necessario che un percorso di studi come quello dei nuovi licei cerchi di operare una risposta soprattutto nella prospettiva di una costruzione della cittadinanza democratica, per comprendere a fondo il percorso complesso e contraddittorio della fondazione civile di una modernità laica, autosufficiente, libera dai poteri e dai condizionamenti che il mestiere dello scrittore ha dovuto subire per secoli prima di esercitare una autonoma attività intellettuale e di esercizio critico della ragione. Da Dante alla fine dell’Ottocento, la tipologia dell’intellettuale è andata cambiando insieme al contesto storico e sociale, ma è comunque rimasta una professione riservata ad una élite quantitativamente definita e circoscritta: si è invece trasformata la sua capacità di autonomia e di indipendenza, anche materiale, nei confronti della committenza. Un passaggio chiave è avvenuto con l’invenzione della stampa, che ha moltiplicato le potenzialità comunicative del libro, generato nuove figure professionali e consentito la formazione di un pubblico ampio e stratificato. Fino a tutto il Settecento l’intellettuale è stato prevalentemente un uomo legato alla corte, dove ha svolto mansioni piú o meno prestigiose, in casi sporadici redditizie, e sempre in una posizione subordinata rispetto al principe e alle istituzioni. Ma è nel secolo dell’Illuminismo che lo scrittore prende coscienza della propria autosufficienza, non soltanto culturale: i grandi romanzieri inglesi di questo periodo, ad esempio, sono la dimostrazione che, attraverso un genere di consumo come il romanzo di successo, si può arrivare a un piena indipendenza economica vivendo del proprio lavoro.

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