Guido Cavalcanti

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Numerose fonti, coeve o di poco posteriori alla sua vita, tramandano l’immagine di un Guido Cavalcanti (1250 ca.-1300) inquieto e solitario, intellettuale aristocraticamente riservato, assorto in una ricca ricerca speculativa, alla quale si aggiunge l’interesse per la vita civile e politica. Dino Compagni, nella Cronica (I, 20), ne parla come di un «giovane gentile, figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, [...] cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio», dando cosí il via a una vasta e diffusa aneddotica che includerà, tra i maggiori, il Villani della Nuova cronica (VIII, 41), lo stesso Dante della Vita Nuova e dell’Inferno, il Boccaccio del Decameron (VI, 9), il Sacchetti del Trecentonovelle (LXVIII). Ma il Boccaccio lo ricorderà anche nelle Esposizioni sopra la Comedia, come «uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno», che «seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí com’esso medesimo mostra nella sua Vita Nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sí come ella è, da molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti»[1]. Il medesimo giudizio ritorna nella novella del Decameron, in cui Cavalcanti è presentato come «un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale [...] alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse». La dimensione laica e epicurea di Cavalcanti, la sua vena polemica, la dura opposizione che egli, guelfo di parte bianca, manifestò nei confronti di Corso Donati (fino all’assassinio che quest’ultimo ordí ai danni del poeta), contribuirono certamente a creare attorno a lui un alone leggendario, la sensazione di essere di fronte a uno scrittore profondamente nutrito di materiali filosofici e di argomenti speculativi. E proprio in questa direzione, ad esempio, il De Sanctis lesse e interpretò l’opera di Cavalcanti, definito nella Storia della letteratura italiana «filosofo prestantissimo [...] a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia»[2]. Appartenente a una delle famiglie mercantili piú in vista e potenti di Firenze, Guido Cavalcanti nacque intorno al 1259. Il padre era quel Cavalcante che partecipò alla battaglia di Montaperti, l’«epicureo» che Dante incontra nel cerchio degli eretici insieme al capo ghibellino Farinata degli Uberti (Inferno, X). E la figlia di Farinata, Bice, dovette sposare piú tardi il Cavalcanti, se il suo nome figurava accanto alla promessa sposa già dal 1267, in occasione di un riavvicinamento tra le due fazioni politiche. Guelfo di parte bianca come Dante, Cavalcanti svolse importanti mansioni politiche: giovanissimo, nel 1280 fu tra i firmatari della pace del Cardinale Latino, che doveva ricomporre i rapporti tra guelfi e ghibellini, quindi fece parte del Consiglio Generale del Comune insieme a Brunetto Latini e a Dino Compagni (1284). È nell’ambito di questa partecipazione che si colloca l’ostilità di Corso Donati verso il Cavalcanti, piú volte sottolineata dal Compagni nella Cronica: anzi, in occasione di un pellegrinaggio del poeta a Sant’Iacopo di Compostella (1292), il Donati avrebbe tentato di ucciderlo. Ma è con gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) che Cavalcanti, insieme a molti altri esponenti delle famiglie magnatizie, viene escluso dalle cariche pubbliche. In seguito alle reazioni e alla profonda lacerazione del clima politico fiorentino, ora sempre piú incandescente e violento, Cavalcanti viene condannato al confino a Sarzana (1300): tra i priori che presero la decisione di allontanare dalla città i piú facinorosi si trovava anche Dante. Cavalcanti moriva in seguito a febbri malariche il 29 agosto 1300, poco dopo essere rientrato a Firenze per la revoca del bando. Questi, dunque, i fatti esterni e, per cosí dire, biografici, di un canzoniere che si presenta senza una vera evoluzione cronologica, ma che si coagula intorno a tematiche costanti e senza dubbio fondamentali per l’evoluzione piú matura dello stilnovismo fiorentino. I 52 componimenti di questo corpus, comprese le rime di corrispondenza, trovano nella canzone Donna me prega una presenza spartiacque, un vero e proprio elemento discriminante tra i sonetti di tono riflessivo o anche amichevole (si guardino quelli indirizzati a Guittone, Dante, Guido Orlandi) e le ballate, nelle quali è dominante invece la compassione di sé, la ricerca di un colloquio interiore con la donna, lo sbigottimento, la meraviglia sentimentale di fronte a una bellezza che è angosciosamente lontana. Lo stesso tema amoroso, rappresentato da alcuni stilnovisti tra cui Dante, in vista di un innalzamento morale e spirituale dell’uomo, viene da Cavalcanti sostanzialmente rovesciato, riportato cioè a una condizione di visione drammatica, fortemente coinvolgente sul piano emotivo. In questo senso si spiega il netto e consapevole distacco rispetto al sonetto A ciascun’alma presa che inaugura la Vita Nuova, al quale Cavalcanti, da Dante nominato nel prosimetro «primo de li miei amici» (III, 14), risponde con una considerazione tragica dell’esperienza d’amore, che non trova però adesione nella cerchia fiorentina, ma costituisce anzi un primo motivo di divisione e anticipa i versi cavalcantiani di S’io fosse quelli, scritto in risposta al dantesco Guido, i’ vorrei, e al successivo I’ vegno ‘l giorno a te. Un percorso, quello di Cavalcanti, che mira a stabilire una puntuale gerarchia di temi e motivi affini a un’attenzione speculativa estremamente raffinata, dall’averroismo alle letture condotte in odore di eresia (si ricordi il «tenea della oppinione degli epicuri» vulgato dal Boccaccio), comunque attenta a quell’interessante laboratorio filosofico che è l’università di Bologna. Le intuizioni di Kristeller, prima, e le conferme di Maria Corti[3], poi, hanno dimostrato che la Quaestio de felicitate di Giacomo da Pistoia, la cui influenza si estende direttamente sulla canzone Donna me prega, è dedicata a Guido Cavalcanti e quindi in grado di stimolare i contenuti piú ardui di una speculazione in forma di poesia: un dato che fa ovviamente riflettere e che spinge a considerare con attenzione il fecondo rapporto tra la poesia fiorentina della fine del Duecento e le coeve discussioni aristoteliche dello studium bolognese. Nasce da questo radicale aristotelismo il contesto che fa da sfondo alla canzone dottrinale di Cavalcanti: si consideri ad esempio il concetto per cui le passiones, quindi anche l’amore, sono operationes animae, nell’ottica di una scientia de anima. Ma dalla passione d’amore scaturisce la morte («di sua potenza segue spesso morte», scrive Cavalcanti al v. 35) e quindi la deviazione da ogni ordine naturale e razionale. Non soltanto alla luce della Quaestio, ma utilizzando forse in Donna me prega anche i contributi di un altro commento aristotelico, il De summo bono di Boezio di Dacia[4], si verifica qui uno dei passaggi chiave della poetica di Cavalcanti: l’amore consiste in un excessus delectationis e provoca pertanto insania smisurata, eccesso, ira, autodistruzione. Nello sviluppo di questi argomenti e per evidenziare la centralità di Donna me prega, si potrebbero osservare lessico e terminologie della poesia di Cavalcanti, a conferma di una concezione tormentata e dolorosa dell’amore. Sorprendono la coerenza e la stabilità delle parole-chiave: sospiri, dolore, timore (nel sonetto Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro); pena e sbigottimento (nei sonetti Deh, spiriti miei quando mi vedete e L’anima mia vilment’è sbigottita); sofferenza e morte (Tu m’hai sí piena di dolor la mente); tormento, tremore, pianto, disperazione (nella canzone Io non pensava che lo cor giammai); angoscia, penosi sospiri, disfacimento (in Voi che per li occhi mi passaste ‘l core), e l’elenco potrebbe continuare. Forse si deve a un risentimento orgoglioso, a un’inconscia ostilità alle atmosfere concilianti dello stilnovismo dantesco, la cifra singolare di questo lessico, che resta comunque un dato sorprendente e originale nella lezione di un artista capace di muoversi sul terreno della poesia con grande perizia tecnica e stilistica, con una sorvegliata capacità innovativa, con un calcolato uso dell’enfasi e della drammatizzazione.

 [1] G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965, p. 526 (X, 62). Riguardo all’antagonismo Cavalcanti-Virgilio ha avuto non poche responsabilità l’erronea interpretazione del passo dantesco: «Da me stesso non vegno; | colui ch’attende là, per qui mi mena | forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (Inferno, X, 61-63). Sulla questione si legga la voce di M. Marti, Cavalcanti, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1984, vol. I, p. 895.
[2] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., vol. I, p. 107 e p. 109 (cap. II, §§ 9-10).
[3] Maria Corti, nel suo La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 1983, p. 3 e sgg., ricostruisce brevemente la storia della scoperta della Quaestio de felicitate, dovuta dapprima al Grabmann, quindi ripresa con ulteriore vigore da P. O. Kristeller con il saggio A Philosophical Treatise from Bologna Dedicated to Guido Cavalcanti: Magister Jacobus de Pistorio and his «Quaestio de Felicitate», in AA. VV., Medioevo e Rinascimento. Studi offerti a Bruno Nardi, Firenze, 1955.
[4] Sulla questione si veda ancora M. Corti, La felicità mentale, cit., p. 11 e passim.