Cino da Pistoia (1270 ca.-1336 o 1337) Stampa la pagina << indietro

 

Assai diversa è la posizione di Cino da Pistoia, sia nei confronti di Dante che di Cavalcanti. Ben distante da qualunque volontà dottrinale e teorica, la poesia di Cino prolunga i termini cronologici dello stilnovismo fino ai primi del Trecento, raccogliendo attorno a sé, quando Dante guarda già altrove e considera chiusa quella parentesi, l’ammirazione e l’imitazione di piú giovani poeti. Lo stesso Boccaccio conobbe Cino a Napoli, verso il 1330-31, quando quest’ultimo, già da tempo ammirato giurista e docente di diritto, insegnava presso lo studium della città angioina. Anzi il poeta del Filostrato (V, 62-65) volle in quell’occasione dedicare un omaggio alla canzone di Cino La dolce vista e ‘l bel guardo soave; ma anche Petrarca ricordò il poeta e la donna da lui amata, Selvaggia dei Vergiolesi, nel Triumphus Cupidinis (IV, 30), e incluse la medesima canzone nella sua dal titolo Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi (cfr. Canzoniere, LXX), che è sostanzialmente un incipitario di liriche famose (vi sono menzionati versi di Arnaut Daniel, Dante, Cavalcanti, Cino e Petrarca stesso), precedendo di poco la commossa rievocazione per la morte di Cino nel sonetto Piangete, donne, et con voi pianga Amore, (Canzoniere, XCII)[1].

Per non parlare del De vulgari eloquentia, dove Cino è l’amico di Dante, (si rammenti il «Cynus Pistoriensis et amicus eius»: I, x, 2), piú volte richiamato e menzionato come modello di riferimento in vista di una puntuale definizione delle fenomenologie metriche, in primis la canzone. Tra queste, Dante ricorda l’incipit settenario Degno son ch’io mora (II, ii, 8); quindi, a dimostrazione dell’alto prestigio dell’endecasillabo, I’ non spero che mai per mia salute (II, v, 4), infine la canzone consolatoria scritta da Cino per la morte di Beatrice Avvegna ched el m’aggia piú per tempo. Evidentemente per la scelta di un volgare «tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum»[2], la presenza di Cino è, non soltanto giustificata, ma addirittura indispensabile, soprattutto alla luce del contributo in termini stilistici e metrici dell’amico di Dante, ossia per la coerente e cospicua sperimentazione della canzone (quelle del pistoiese sono ben 19 rispetto alle presenze piú saltuarie nei canzonieri di Guinizzelli e Cavalcanti). La gerarchia delle forme metriche espressa da Dante prevede la netta supremazia della cantio, che si pone al vertice delle categorie estetiche ben al di sopra della ballata e del sonetto: questo spiega la matrice, come ha scritto Calenda, «sottilmente anticavalcantiana» del De vulgari e, per contro, il netto rilievo attribuito all’opera di Cino.

Guittoncino di ser Francesco dei Sigi(s)buldi nacque da una nobile famiglia pistoiese nel 1270: condusse i primi studi sotto la guida di Francesco da Colle, quindi, verso il 1290, passò all’università di Bologna dove portò a termine importanti studi giuridici con Francesco d’Accorsio e Lambertino Ramponi. Dopo un probabile viaggio in Francia, alla scuola di Pierre de Belleperche, rientrò a Lucca, da cui venne esiliato (1303-1306) poiché la sua famiglia apparteneva alla fazione dei Neri. Dopo la sconfitta dei Bianchi ritornò nella città natale dove ricoprí alcuni incarichi ufficiali. Nel 1310, come è attestato dalla canzone Oimé lasso, quelle trezze bionde, perdette l’amata Selvaggia dei Vergiolesi, anche lei costretta all’esilio. Esercitò la funzione di giudice anche fuori Toscana, nelle Marche, e insegnò il diritto a Perugia (1326-1330) e a Siena, avendo come allievo Bartolo da Sassoferrato. Nell’ambito degli studi giuridici compose una Lectura in codicem con successive Additiones (un commento ai primi nove libri del codice di Giustiniano), una Lectura in Digestum vetus, il trattato De successione ab intestato, numerose glossae e quaestiones, tra cui la Rector civitatis contro il potere temporale del papa. Dopo il soggiorno napoletano (1330-1331), peraltro poco gradito stando alla canzone Deh quando rivedrò ‘l dolce paese, tornò a Lucca dove morí nel 1336 (o forse ai primi del ‘37).

Il canzoniere di Cino comprende 20 canzoni, 11 ballate e 134 sonetti: supera quindi, e di gran lunga, i 160 elementi, secondo solo a quello di Guittone e Petrarca, per quanto riguarda la poesia italiana del Due-Trecento, ai quali componimenti andrebbero aggiunte anche 21 rime dubbie. Assai consistente è poi la porzione delle rime di corrispondenza, in particolare con Dante, ma anche con Cavalcanti, Cecco d’Ascoli, Binduccio da Firenze, Guelfo Taviani, Meo de’ Tolomei, Cacciamonte, Mula da Pistoia, Marino Ceccoli e altri. Spetta un posto di rilievo, invece, alla tenzone con Onesto da Bologna, che inviò al poeta, tra gli altri, il sonetto Mente ed umíle e piú di mille sporte al quale Cino rispose «per le rime» con il suo Amor che vien per le piú dolci porte. Un posto di rilievo perché, nel lanciare le sue accuse, Onesto vuole cogliere polemicamente e in negativo i principali aspetti della poesia stilnovistica: le istanze speculative (l’«andar filosofando»), l’astrattezza di una materia che viene bollata come visionaria («‘l vostro andar sognando»), la fumosa teoria d’amore (le «mille sporte piene di spirti»). Nella risposta, Cino rifugge da ogni giustificazione di ordine speculativo, in questo rivelando una presa di distanza fin troppo evidente, come del resto avviene in tutto il suo canzoniere, dalla prassi teoretica del primo Guido e di Cavalcanti, per insistere invece sulle corde di un’ispirazione introspettiva e personale. In questo si anticipano dunque gli ingredienti del Cino maggiore, in cui mélos e elegia si fondono insieme dentro un tessuto di memorie poetiche e di rievocazioni autobiografiche, salvo poi l’insistere eccessivo sulle medesime tematiche, quei costanti, talora monotoni, richiami che hanno pesato non poco nella storia della fortuna critica ciniana.

La stretta contiguità affettiva e poetica con Dante condusse la lirica di Cino negli immediati dintorni della Vita Nuova: lo stile della loda, il tema saluto-salute giocato sul bisticcio dei termini, la presenza di eguali costruzioni sintattiche, tutti questi elementi testimoniano un atteggiamento che va al di là della semplice ammirazione o imitazione di forme che si erano a quel punto consolidate. Il Marti ha parlato in termini di suggestione e di soggezione, e non soltanto riguardo a Dante ma anche verso il Cavalcanti, poiché la poesia di Cino «non possiede la capacità di tramutare in rivelazione teologica la propria vicenda d’amore, di proiettarla su piani metafisici e di viverla fino in fondo nella sua intensa potenzialità simbologica e figurale»[3].

Ma in vista dei recuperi petrarcheschi e di una apertura di quella lirica a modulazioni di natura elegiaca, Cino torna ad assumere un compito di mediazione essenziale, in quanto si pone in una zona intermedia che da una parte chiude cronologicamente l’esperienza stilnovistica e dall’altra apre quella dei primi decenni del Trecento: la sua è dunque una posizione di equilibrio, che mostra una straordinaria capacità di metabolizzare i prestigiosi contributi dell’esperienza occitanica, di assorbire le componenti siciliane e siculo-toscane, di coniugare l’alta sapienza tecnica con il magistero e la funzione della cultura universitaria, in vista di un’uniformità necessaria per stabilire il denominatore comune dello stilnovismo.

 

[1] Una ulteriore citazione, sempre da parte del Petrarca, si ha nel sonetto CCLXXXVII,  Sennuccio mio, ben che doglioso e solo.

[2] Cfr. De vulgari eloquentia, cit., I, xvii, 3.

[3] Cfr. M. Marti, Storia dello Stil Nuovo, Lecce, Milella, 1973, p. 491.

 


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Ultimo aggiornamento: venerdì 16 agosto 2013