Guido Guinizzelli

  Stampa la pagina << indietro
Assai scarsi sono i dati biografici su Guido Guinizzelli (1230 ca.-1276): stando alle notizie di Benvenuto da Imola, che nel suo Comentum super Dantem lo identifica con un «miles bononiensis de clarissima familia Principum», il poeta viene identificato come Guido Guinizzello di Magnano, nato intorno al 1230, primogenito di Guglielmina di Ugolino Ghisilieri (parente del rimatore Guido Ghisilieri ricordato da Dante nel De vulgari eloquentia, I, xv, 6).
Fedele alla tradizione universitaria bolognese, Guinizzelli esercitò l’attività di giureconsulto, come è attestato da alcuni documenti del 1268. Vicino alla famiglia ghibellina dei Lambertazzi, venne esiliato nel 1274 e si ritirò a Monselice, presso Padova, dove morí prima della fine del 1276.
Nell’entourage letterario e universitario bolognese i modelli poetici siciliani erano stati introdotti da Re Enzo e da Semprebene, ed erano stati poi sviluppati da artisti piú giovani come Pellizzaro Nascimbene, Gherarduccio Garisendi, Rainieri dei Samaritani, Bernardo da Bologna e, soprattutto, da Onesto, accanito nemico di Cino nel sonetto Mente ed umíle e piú di mille sporte (la disputa include in tutto cinque sonetti di Onesto e quattro, in risposta, di Cino; ma a voler essere precisi andrebbero contati anche i due sonetti di Onesto inviati a Bernardo da Bologna, in realtà diretti contro Cino, ai quali quest’ultimo rispose con altri due sonetti). Ma a parte le polemiche e le dispute, che hanno ovviamente la loro importanza per capire il complesso dibattito intorno alle poetiche stilnovistiche, tutto l’ambiente emiliano era allora in vivace e creativo fermento, e lo stesso Cino potrà in un secondo momento riprendere la pratica della tenzone e del dileggio, con Cacciamonte e con Picciòlo da Bologna, quindi con Gherarduccio Garisendi. Non stupisce, dunque, che un poeta come Guinizzelli venga da Dante ricondotto a una posizione di privilegiata autorevolezza: la fiducia che nel De vulgari egli ripone nella lingua bolognese indica evidentemente il raggiungimento di un prestigio difficilmente eguagliabile. Nel De vulgari (I, xv, 5-6 e II, xii, 6) la fisionomia della lirica guinizzelliana è riconosciuta da Dante come la sola esperienza della cerchia bolognese in grado di operare un taglio netto con la tradizione guittoniana. Rispetto a Onesto, sul cui prestilnovismo alcuni interpreti hanno già avuto modo di pronunciarsi piú o meno favorevolmente lasciando comunque spazio a ulteriori specificazioni, il caso di Guinizzelli è assai diverso. Debitore in parte al dettato moralistico e stilistico di Guittone, il piccolo canzoniere di Guinizzelli testimonia tra l’altro una precisa vocazione al trapasso, all’equilibrio e all’apertura in avanti, ma sempre nel puntuale rispetto del maestro Guittone: si vedano allora il sonetto O caro padre meo con cui si preannuncia l’invio in omaggio di una canzone, forse Lo fin pregi’ avanzato. Del maestro Guinizzelli, Dante ci offre (in Purgatorio, XXVI, vv. 94-102) un ritratto estremamente positivo e ammirativo, rivolgendosi a lui nei termini di un «padre mio» estremamente significativo e in linea con quanto il bolognese aveva fatto da par suo con Guittone, nel celebre sonetto O caro padre meo già ricordato:

Quali ne la tristizia di Licurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fiata rimirando lui,
né, per lo foco, in là piú m’appressai.

Se la contiguità tra Guinizzelli e Guittone può, in qualche modo, essere riconosciuta e convalidata dai fatti, è anche vero del resto che il primo Guido andò ritagliandosi sempre di piú tra i modelli cortesi, siculo-toscani e bolognesi un raggio d’azione decisamente innovativo, sorretto da forti motivazioni intellettuali e filosofiche.
Anzi, è proprio a partire dalla canzone Al cor gentil, fino ai piú celebri sonetti, nelle prove piú mature e negli scritti dottrinali, che Guinizzelli mostra evidenti e importanti elementi che aprono e anticipano la stagione stilnovistica, predisponendola attorno a riflessioni di natura concettuale e filosofica. Dante, è inevitabile, assume il Guinizzelli di questa canzone come una figura ancora una volta di riferimento e di stimolo: lo si vede nell’attacco di un famoso sonetto della Vita Nuova (XX), Amore e’ l cor gentil sono una cosa, che è seguito subito dopo dalla precisazione «sí come il saggio in suo dittare pone». Ma anche in un passo del Convivio (IV, xx, 7), spiegando la canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia, Dante espone i contenuti della teoria d’amore già espressa dal primo Guido: «se l’anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sí come se una pietra margarita è male disposta, o vero imperfetta, la vertú celestiale ricever non può, sí come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone che comincia: Al cor gentil ripara sempre Amore». L’attenzione che Dante ha mostrato per quella che viene considerata una vera e propria poesia-manifesto dello stilnovismo, esprime alla lunga una coerenza indiscutibile, non soltanto nei riguardi della materia dottrinale di Al cor gentil, ma soprattutto verso gli elementi stilistici di dolcezza e levità che nel De vulgari sarebbero poi stati eretti a modelli di una poetica non «plebea». Dante aveva pertanto esaltato, sulla base delle indicazioni guinizzelliane e contro Bonagiunta e Guittone, quei poeti che avevano poetato in volgare «dulcius subtiliusque» (De vulgari eloquentia, I, x, 2,) ovvero Cino da Pistoia, definito «cantor amoris» e se stesso «cantor rectitudinis». Né si erano fatti attendere, sempre nel trattato latino, riferimenti lusinghieri e esemplificazioni puntuali, a proposito dei vv. 3-4 di Al cor gentil. Ma si vedano ancora il passo in cui si menziona il «Maximus Guido» in relazione all’incipit della canzone Madonna, ‘l fino amore ched eo vo porto (De vulgari, I, xv, 6); l’inserimento di Tegno de folle ‘mpres’, a lo ver dire tra i costrutti piú insigni della canzone (II, vi, 6); il riferimento alla perduta canzone De fermo sofferire, peraltro identificabile con una dallo stesso incipit e attribuita nel codice Vat. 3214 a «mastro Simone Rinieri di Firenze. L’assunzione della tematica amorosa, oramai ben lontana dal fin’amor provenzale, tipico dell’esperienza cortese, si snoda, nel manifesto guinizzelliano, attraverso una sublimazione religiosa della donna che si distingue certamente dalle figure angelicate già presenti nelle rime di Giacomo da Lentini e Rinaldo d’Aquino o in quelle dei siculo-toscani Inghilfredi e Monte Andrea. Semmai in Guinizzelli prevale la volontà di allargare, in Al cor gentil, il tessuto morale e interiore della donna attraverso una concezione dell’amore che non guarda piú alla trattatistica cortese di Andrea Cappellano, bensí ai modelli della scolastica tomistica largamente diffusa nello studium bolognese. Cosí, la dinamica cor gentile-amore può risolversi nel dualismo di matrice aristotelica potenza-atto: la donna diviene in questo senso motore immobile di matrice divina, tramite di salvezza e di innalzamento spirituale.