Il quadro storico e politico nella Firenze di Dante Alighieri

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Dopo il 1266, che è l’anno della sconfitta di Manfredi (figlio illegittimo di Federico II) a Benevento, ad opera di Carlo d’Angiò, anche la storia politica e sociale di Firenze prende una piega decisamente chiara a vantaggio della fazione dei guelfi. Il progetto perseguito da Manfredi, e prima ancora da Federico II, era stato quello della creazione in Italia di un grande organismo statale in netta contrapposizione con il potere della Chiesa. I termini che spesso ricorrono nei manuali di storia medievale e che cercano di definire i due schieramenti sono quelli di guelfi e ghibellini. Il significato di questa distinzione è da ricercare nel loro diverso orientamento politico: ghibellini erano i fautori di Federico II, guelfi erano invece gli antagonisti di questo potere, e tradizionalmente alleati del Papato.

Tuttavia sarebbe sbagliato porre i ghibellini a difesa dello Stato laico, e i guelfi difensori di una politica universalistica a fianco esclusivo e subordinato della Chiesa: lo stesso si dica per la tesi, anche questa molto semplicistica, dei ghibellini sostenitori delle forze feudali e dei guelfi fautori delle rivendicazioni della borghesia moderna. In realtà la divisione tra guelfi e ghibellini non era che il prodotto della spaccatura che venne a crearsi in numerose città italiane, e quindi a Firenze, tra opposte famiglie magnatizie: più giusta è invece l’ipotesi che individua un’affinità politica del popolo minuto con i guelfi, dal momento che la parte avversa stava appoggiando la nascita di uno stato sovracittadino, sganciato cioè dagli interessi delle classi medio-basse e dalle municipalità locali. La sconfitta di Manfredi e dei ghibellini rappresentò per Firenze il pretesto dell’ascesa irriducibile dei guelfi, con una serie di conseguenze estremamente importanti per il destino della città, e dall’esito spesso violento.

Le lotte tra il popolo grasso e il popolo minuto, cioè tra la grande borghesia delle arti maggiori (che inizialmente erano in numero di dodici: Giudici e Notari, Cambio, Lana, Seta, Calimala, Medici e Speziali, Pellicciai, Rigattieri e Lanaiuoli, Calzolai, Beccai, Fabbri, Maestri di pietra e legname) e la vecchia nobiltà alleata alle Arti minori, culminarono nel 1293 con gli ordinamenti di giustizia ispirati da Giano della Bella che di fatto provocarono il progressivo esautoramento del potere della nobiltà cittadina. Cresceva invece il prestigio delle più importanti Arti maggiori, nelle cui mani veniva a cadere la possibilità di coniugare gli interessi economici con le cariche pubbliche della città. Nella Firenze della fine del Duecento il ghibellinismo veniva interpretato come l’espressione politica dei ceti nobiliari: soprattutto per questa ragione esso attraversò un periodo di inevitabile declino. Tuttavia la parte guelfa subiva negli stessi anni una profonda crisi interna, dovuta a spaccature, frizioni, contrasti violenti tra fazioni e famiglie rivali: il caso della scissione, proprio a Firenze, tra Guelfi bianchi e Guelfi neri, capeggiati rispettivamente dalle famiglie dei Cerchi e dei Donati, i primi provenienti dal contado e ascesi rapidamente al rango della ricca borghesia commerciale, i secondi esponenti invece della ricca aristocrazia.

Gli ordinamenti di giustizia, che dal 1293 al 1295 avevano rappresentato una arma di controllo da parte del popolo minuto rispetto ai magnati e alle grandi famiglie gentilizie, venivano a loro volta sospesi per reintegrare il controllo politico delle Arti maggiori (soprattutto Calimala, Cambio e Lana): quella che era sembrata agli inizi come una riforma dal basso, una vera rivoluzione politica contro l’oligarchia guelfo-magnatizia e mercantile, ora si concludeva con un nulla di fatto. Tuttavia il tentativo dei ceti artigiani di controllare dal basso l’andamento politico ed economico di Firenze si esaurisce nel rapido volgere di un paio di anni: gli ordinamenti vengono mitigati, e questo provoca il deciso ritorno al «priorato» delle Arti più potenti.

Tra il 1288 e il 1292 Firenze era impegnata in una politica di espansione territoriale che la vedeva combattere su due fronti, contro Arezzo (si ricordi la sanguinosa battaglia di Campaldino del giugno 1289, conclusasi vittoriosamente per i fiorentini) e contro Pisa durante l’assedio al castello di Caprona (Dante partecipò a entrambi gli scontri). Soprattutto l’impresa pisana, molto dispendiosa da ogni punto di vista, produsse in larghi strati della popolazione un risentimento contro la classe dirigente: un malcontento che sfociò rapidamente nei già rammentati ordinamenti di Giano della Bella.

Dante entrava a fare parte della vita politica attiva di Firenze dopo il 1295, quando gli ordinamenti subirono un ridimensionamento, ma a patto di iscriversi ad una delle Arti maggiori: questo gli avrebbe garantito un accesso sicuro alle cariche pubbliche e al governo della città. Sulla effettiva attività politica di Dante abbiamo purtroppo notizie molto scarse e imprecise: tuttavia possiamo stabilire con certezza almeno alcuni punti circa le sue posizioni. In primo luogo la ricerca concreta di una pacificazione tra le due frange cittadine dei Cerchi e dei Donati; in secondo luogo una altrettanto ferma linea antipapale, confermata anche dalle aperte simpatie per i guelfi di parte bianca.

Firenze stava conoscendo nell’ultimo ventennio del Duecento una crescita demografica ed economica senza precedenti: l’afflusso in città di quella che Dante chiamerà «gente nuova» (Inferno, XVI, 73), cioè gli immigrati dal contado in cerca di prospettive economiche, era il segno di un reale cambiamento sociale del tessuto fiorentino. Lo sviluppo delle attività manifatturiere nel settore dei tessuti era il centro motore di una struttura che si avvaleva di supporti finanziari molto importanti. Nel 1284 l’espansione demografica raggiunse livelli tali da imporre la progettazione di una più ampia cerchia di mura e la costruzione di tre nuovi ponti. Alcuni dati interessanti a questo riguardo ci vengono dalla Cronica di Giovanni Villani (circa 1275-1348): le cifre che egli riporta sono state messe più volte in discussione dagli studiosi, perché risultano poco attendibili alla luce delle più recenti dimostrazioni statistiche. Villani viene certamente trasportato da un desiderio di esaltazione della sua città, e riferisce quindi in eccesso sia sui traffici e la ricchezza dei commerci, sia sulle cifre stesse della popolazione.

Villani riferisce di una popolazione di 90.000 abitanti: una stima forse eccessiva, anche se non di molto, ma che dimostra la vivacità di Firenze, il suo desiderio crescente di «sùbiti guadagni» (Inferno, XVI, 73). La polemica dantesca (cfr. Paradiso, XVI, 49 e sgg.) si appunta contro la cittadinanza mista, contro la borghesia degli affari originaria «di Campi, di Certaldo e di Fegghine», contro il villano inurbato di Signa «che già per barattare ha l’occhio aguzzo». Eppure la famiglia dei Cerchi, i guelfi di parte bianca sotto il cui vessillo anche Dante si schierò, erano i tipici rappresentanti di quella gente nuova con cui il poeta avrebbe polemizzato. Il Villani a proposito dei Cerchi (Cronica, VIII, 39) scrive che essi erano gente «di grande affare, e possenti, e di grandi parentadi, e ricchissimi mercatanti, che la loro compagnia era delle maggiori del mondo; uomini erano [...] salvatichi e ingrati, siccome genti venuti di piccolo tempo in grande stato e potere».

Rispetto alla violenza magnatizia e aristocratica dei Neri, la politica di modesta apertura verso i ceti mediobassi dell’artigianato che i Bianchi stavano appoggiando dovette sembrare agli occhi di Dante una migliore garanzia di pacificazione interna: inoltre i Neri erano compromessi in speculazioni corrotte con la Curia, un segno premonitore (siamo infatti tra il 1296 e il 1297) della prossima alleanza tra la famiglia dei Donati e il papa Bonifacio VIII. Nell’estate del 1300 Dante viene eletto tra i Priori, la più alta carica fiorentina, una prova molto evidente del prestigio che egli aveva assunto nella vita politica della città, ma anche del suo nutrito sentimento antipapale. Da ora in avanti la biografia politica e intellettuale di Dante è coinvolta direttamente nelle scelte che Bonifacio VIII da una parte, e i turbolenti avvenimenti fiorentini dall’altra, provocheranno dentro il tessuto civile di Firenze e dell’intera penisola. Mentre Carlo di Valois, chiamato da Bonifacio VIII a restaurare il principato degli Angioini in Sicilia e in realtà a conquistare la Toscana a fianco dei Neri, si accingeva a entrare a Firenze nel novembre del 1301, Dante tentava invano a Roma una mediazione presso il Papa. A Firenze, con un colpo di mano, Corso Donati rientrava in possesso del potere e dava inizio a una serie di persecuzioni, saccheggi e condanne. Dante si trovava ancora a Roma quando (il 27 gennaio 1302) venne condannato al bando per due anni dalla Toscana e alla multa di 5000 fiorini: l’accusa era di baratteria e corruzione, opposizione al Pontefice e turbamento della pace a Pistoia. Dante rifiutò le accuse e il pagamento della multa: la sua condanna fu allora totale, esiliato a vita e mandato al rogo qualora fosse stato trovato nel territorio di Firenze. I suoi beni vennero tutti confiscati, e la condanna estesa anche ai suoi figli non appena avessero raggiunto i quattordici anni di età.