La vita di Dante Alighieri

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Dante Alighieri nasce a Firenze, nel 1265, da Alighiero, o Alagherio di Bellincione, tra la fine di maggio e i primi di giugno, come testimonia egli stesso in Paradiso, XXII, 112-120.

Trascorre la prima giovinezza tra vita elegante e studi, in particolare di retorica, sotto la guida di Brunetto Latini, conosciuto nel 1283. Nello stesso periodo frequenta un gruppo di giovani poeti: tra questi, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia. Compone alcune liriche, parte delle quali saranno incluse poi nella Vita Nova. Nel 1285 (ma alcuni spostano la data a dieci anni più tardi) sposa Gemma Donati, figlia di Manetto, promessagli fin dal 1277 con un contratto matrimoniale stipulato tra le due famiglie, secondo l’uso del tempo. Da lei avrà tre figli, Jacopo, Pietro e Antonia (e forse un primogenito Giovanni, citato come testimone in un atto del 1308: di lui non si ha altra notizia).

Nel 1287 è probabilmente a Bologna, dove viene a contatto con la cultura di quella città e con il Guinizzelli; due anni dopo prende parte alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), tra Lega dei guelfi da un lato e Aretini e ghibellini toscani dall’altro. Appartiene a questi anni l’amore spirituale per una donna, forse Bice figlia di Folco Portinari, la Beatrice della Vita Nova e della Commedia, che muore giovanissima nel 1290.

Tra il 1293 e il 1294 compone la parte in prosa della Vita Nova. Intanto si appassiona agli studi di filosofia: in particolare, segue lezioni su Aristotele e sugli interpreti cristiani della sua dottrina, san Tommaso e Alberto Magno; lo interessa, però, anche il pensiero del teologo francescano Bonaventura da Bagnoregio. Il tirocinio filosofico avviene, come egli ricorda, nelle «scuole de li religiosi» e attraverso le «disputazioni de li filosofanti» (Convivio, II, XII, 1 e segg.).

Nel 1295 si iscrive all’Arte dei medici e degli speziali, condizione indispensabile per partecipare alla vita politica cittadina, e si schiera con i bianchi, una fazione del partito guelfo che rivendica maggior autonomia dal papa, sostenitore invece della parte avversa, i neri. Tra il 1296 e il 1297 fa parte del Consiglio dei Cento e poi del Consiglio del Podestà. Nel 1300 viene eletto priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto. Il 24 giugno, bianchi e neri si scontrano violentemente e i priori decidono di mandare in esilio otto tra i più accesi rappresentanti di ciascuna fazione. Tra questi è Guido Cavalcanti, amico carissimo di Dante, ma anche uno dei bianchi più settari. Il legato pontificio, cardinal Matteo d’Acquasparta, che aveva sobillato le lotte a favore dei neri, chiede ai priori i pieni poteri, che però gli vengono negati. Lascia allora Firenze, dopo aver lanciato l’interdetto contro la città. Si precisa intanto il disegno politico di Bonifacio VIII, il quale, nell’ottobre del 1301, invia a Firenze il principe Carlo di Valois, fratello del re di Francia, Filippo IV il Bello. Il principe riveste il ruolo di paciere, ma in realtà la sua missione nasconde il proposito di appoggiare i neri. Egli entra in Firenze il 1° novembre dello stesso anno. Dante, nel frattempo, è partito per Roma, alla guida di un’ambasceria il cui scopo è quello di chiedere la revoca dell’interdetto e di indagare sulle reali intenzioni del Papa. A Firenze proseguono gli scontri tra fazioni: i neri si impadroniscono del potere, vanamente fronteggiati dagli avversari bianchi; i priori in carica vengono rimossi e al loro posto viene eletto podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio, che apre un’inchiesta sull’operato dei priori nei due anni precedenti. Nel gennaio del 1302, nelle vicinanze di Siena, Dante, di ritorno da Roma, viene a sapere di essere stato accusato di vari reati, tra i quali baratteria ed estorsione. Viene citato in giudizio, e poiché non si presenta, il 27 gennaio è condannato ad una multa di 5000 fiorini da pagare entro tre giorni, a due anni di confino e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Non paga la multa, e poco dopo (il 10 marzo) è colpito da una seconda condanna, in contumacia: la pena prevede la confisca dei suoi beni e la morte sul rogo.

È l’inizio dell’esilio, dal quale non farà più ritorno. Nel 1303, i bianchi tentano più di una volta, ma sempre invano, di rientrare in Firenze. È probabile che Dante inizialmente abbia partecipato a queste imprese. A quei primi tentativi falliti è forse collegato il ricovero presso la famiglia degli Ordelaffi, a Forlí, all’inizio del 1303, e poi presso Bartolomeo della Scala, Signore di Verona, nella seconda metà dell’anno. È di poco posteriore il distacco definitivo dai fuoriusciti: non prende parte, infatti, all’ultimo, sanguinoso tentativo di rientro, che ha luogo alla Lastra, presso Firenze, nel 1304 (di esso fa menzione in Par., XVII, 70-72). Da oltre un anno era iniziato quel continuo e umiliante peregrinare da una città all’altra, in cerca di ospitalità e rifugio, che si sarebbe concluso solo con la morte. Nel Convivio (I, III, 4) Dante ricorda che «per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato»; in Paradiso, XVII, 58-60, il trisavolo Cacciaguida gli profetizza che dovrà imparare «sí come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale».

Tra il 1304 e il 1306 è a Treviso, presso Gherardo da Camino, poi a Padova e forse a Venezia. Si dedica intanto alla composizione del Convivio, del De vulgari eloquentia (La lingua volgare), dell’Inferno. Nell’autunno del 1306 è in Lunigiana, ospite del marchese Francesco Malaspina, per conto del quale firma un trattato di pace con il vescovo di Luni. Dal 1308 i suoi spostamenti si fanno frequenti e di difficile documentazione. È forse a Lucca, e poi a Poppi, in Casentino, ospite presso il conte Guido di Battifolle. Sempre nel 1308 viene eletto imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale Dante ripone grandissime speranze di giustizia e di pace per l’Italia.

Nel 1309, quasi certamente, ha finito di comporre l’Inferno. Nell’ottobre del 1310, il poeta indirizza un’epistola ai Signori e Comuni e Popoli d’Italia per esaltare la missione di giustizia dell’imperatore, che nel frattempo è disceso in Italia; e nel 1311 si rivolge, con un’altra lettera, allo stesso Arrigo VII, invitandolo a marciare contro Firenze; ma le sue aspettative sono ben presto deluse dalla morte dell’imperatore, avvenuta a Buonconvento, presso Siena, nel 1313. Nel frattempo, Dante lavora al De Monarchia (La monarchia), forse già conclusa nel 1313 e alla stesura del Purgatorio, ultimata intorno al 1315. Nello stesso anno 1313 torna a Verona, presso Cangrande della Scala, fratello di Bartolomeo e suo successore, dove rimane per ben sei anni: è il soggiorno più lungo e sereno, grazie alla generosità del suo ospite, che verrà ricordato, con nobili parole di riconoscenza, in Paradiso, XVII, 76-92.

Nel 1315 Firenze concede agli esiliati un’amnistia, purché facciano pubblica ammenda; una condizione che il poeta ritiene umiliante (come afferma nell’Epistola ad un amico fiorentino). Il rifiuto gli costa però la conferma della condanna già ricevuta nel 1302, con in più l’estensione della pena di morte anche ai suoi figli. Nel 1318 è a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta, suo ammiratore e poi imitatore in letteratura. Entro il 1320 (o forse 1321) termina la stesura del Paradiso. Nel 1321, durante l’estate, partecipa per conto di Guido ad una missione diplomatica che lo vede a Venezia, impegnato a scongiurare una possibile guerra. Durante il viaggio di ritorno viene colpito da febbri, e, rientrato a Ravenna, vi muore: è, come testimonia Giovanni Boccaccio, la notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321. A Ravenna viene sepolto «a grande onore, in abito di poeta e di grande filosofo» (Giovanni Villani, Cronica, IX, 136).