La forma metrica della canzone

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Nel secondo libro del De vulgari eloquentia, Dante passa in rassegna alcune forme metriche della poesia italiana individuando nella canzone il componimento di maggiore livello qualitativo e di piú intenso impegno letterario: la sua trattazione e l’auctoritas con cui egli svolge un discorso che contiene al tempo stesso considerazioni tecniche, stilistiche e estetiche, hanno contribuito a fondare un vero e proprio canone dei generi metrici, con la canzone al primo posto di questa graduatoria, seguita nell’ordine dallo stile «medio» della ballata e da quello «umile» del sonetto (ma il De vulgari si interrompe prima di affrontare queste ultime due forme). Dante è, nelle definizioni, molto esplicito: «Volentes igitur modum tradere quo ligari hec digna existant, primo dicimus esse ad memoriam reducendum quod vulgariter poetantes sua poemata multimode protulerunt, quidam per cantiones, quidam per ballatas, quidam per sonitus, quidam per alios inlegitimos et inregulares modos, ut inferius ostendetur. Horum autem modorum cantionum modum excellentissimum esse putamus: quare si excellentissima excellentissimis digna sunt, ut superius est probatum, illa que excellentissimo sunt digna vulgari, modo excellentissimo digna sunt, et per consequens in cantionibus pertractanda» (De vulgari eloquentia, II, iii, 2-3: «Volendo dunque render conto della forma in cui tali temi meritano di essere concatenati, osserviamo per prima cosa che va richiamato alla memoria un fatto, cioè che coloro i quali hanno poetato in volgare hanno dato alle loro creazioni poetiche forme molteplici: chi canzoni, chi ballate, chi sonetti, chi ancora altre forme metriche senza leggi né regole, come si mostrerà piú avanti. Di tutte queste forme metriche noi riteniamo che la canzone sia la piú eccellente: per cui, se ciò che è sommamente eccellente è degno di quanto è parimenti eccellente in sommo grado, come si è dimostrato in precedenza, i contenuti degni del volgare piú eccellente sono anche degni della forma metrica piú eccellente, e di conseguenza vanno trattati nelle canzoni»).

Nel corso della tradizione lirica italiana la canzone ha subito numerose trasformazioni e adattamenti: al rigido schematismo e alla classificazione imposti da Dante e Petrarca, essa ha subito vari rimaneggiamenti, soprattutto nel corso Cinquecento anche grazie a trattazioni teoriche (Bembo, Trissino) che sarebbe arduo sintetizzare in questa sede, e quindi con Leopardi, che trasformerà la canzone in una forma metrica molto libera e non sempre vincolata a una serie di norme costanti. Da parte sua, Dante ne evidenzia l’aspetto melodico: «cantio nichil aliud esse videtur quam actio completa dicentis verba modulationi armonizata» (II, viii, 6: «la canzone non è altro che un’azione in sé compiuta di chi formula parole armonicamente disposte in vista della modulazione melodica»), e, in quanto riservata a una materia alta e complessa, «est equalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio» (II, viii, 8: «è una concatenazione in stile tragico di stanze uguali, senza ripresa, in funzione di un pensiero unitario»).

Lo schema della canzone deriva dalla canso dei poeti provenzali, composta di alcune strofe (le coblas, se ne vedano piú avanti alcune tipologie), anticamente destinata alla lirica d’amore e accompagnata anche dalla musica. L’uso della musica, nella trasposizione della canzone nella poesia italiana del XII e XIII secolo, è andato via via attenuandosi, fino a scomparire del tutto, lasciando spazio cosí all’esperienza della lettura individuale.

La struttura metrica della canzone consiste in un numero imprecisato e variabile di stanze, che di solito oscilla tra le cinque e le dieci. Ci sono però anche canzoni con meno di cinque e con piú di dieci stanze, o addirittura canzoni costituite di una stanza isolata, la cosiddetta cobla esparsa dei provenzali: proprio da quest’ultima tipologia, secondo alcuni studiosi, sarebbe derivato il sonetto. Libero è anche il numero dei versi della stanza, mentre un discorso a parte merita la tipologia del verso che viene adottato. Nella poesia delle origini, dai Siciliani agli Stilnovisti, l’uso dell’endecasillabo è alternato frequentemente ad altri metri (quadrisillabi, quinari, settenari, ma anche ottonari, novenari e decasillabi) e tarda a imporsi come verso di riferimento. L’uso sistematico e, potremmo dire, canonico del settenario e soprattutto dell’endecasillabo, si deve infatti alle esperienze liriche dei siculo-toscani (Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati), e quindi a Dante, che lo definisce «superbius, tam temporis occupatione quam capacitate sententie, constructionis et vocabulorum» (II, v, 3: «il piú splendido, sia per misura di tempo che impegna sia per quanto è capace di contenere in fatto di pensiero, costruzione e vocaboli»).

Nella stanza il numero dei versi e l’andamento delle rime risulta anch’esso non legato a rigidi schematismi: tuttavia lo schema metrico (si dice anche formula sillabica), cioè la conformazione dei versi e la disposizione delle rime della prima stanza, deve ripetersi inalterato anche nelle stanze successive. La stanza indica la strofe della poesia, cioè quella parte del testo che «sta» chiusa in se stessa in maniera autonoma e su un certo tono recitativo e musicale. In genere le canzoni di soli versi endecasillabi (ad esempio la dantesca Donne ch’ avete intelletto d’amore) presentano un andamento solenne e maestoso, piú lento e meditativo rispetto ai componimenti in cui l’endecasillabo si alterna al settenario. All’interno della stanza si possono individuare due parti: la fronte (divisibile in due piedi, uguali nel numero dei versi ma non per la disposizione delle rime) e la sirma o sírima (divisibile in due volte, tuttavia quando la sirma non è divisibile si dice indivisa o collegata). Tra la fronte e la sirma spesso si colloca un verso di passaggio (che può essere in rima con l’ultimo verso della fronte): esso funge da collegamento tra le due parti e prende il nome di concatenatio o chiave. Infine, dopo l’ultima stanza, si colloca il congedo (corrispondente alla tornada provenzale), una parte finale in cui l’autore si rivolge alla sua stessa poesia con un breve commento e osservazioni. Il numero dei versi e la struttura metrica del congedo non sono legati a schemi particolari: di solito i versi variano da tre a otto, lo schema metrico ripropone quello della sirma. Per un’indicazione di massima, senza cioè alcuna pretesa esaustiva data la complessità dell’argomento e il numero elevatissimo di varianti e eccezioni, forniamo come esempio lo schema metrico della canzone La dolce vista e’l bel guardo soave di Cino da Pistoia.



Coblas unissonans: la prima stanza ha rime sciolte (tutte o in parte). Lo stesso schema viene ripreso nelle stanze successive: questa tecnica ebbe in Italia una scarsa diffusione già a partre dai Siciliani. Se ne veda un esempio nella canzone di Stefano Protonoraro Pir meu cori alligrari.

Coblas dissolutas: sono una variante del modello precedente. In ciascuna stanza le rime sono libere ma lo schema viene ripetuto identico nelle strofe successive (ad esempio nella canzone petrarchesca Verdi panni, sanguigni, oscuri, o persi lo schema metrico è AbCDEFg: esso viene ripetuto anche nelle stanze seguenti).

Coblas capfinidas: all’inizio di ogni stanza si riprendono le parole o i gruppi di parole della stanza precedente.

Coblas capcaudadas: consiste nel ripetere la rima finale della stanza precedente nel verso iniziale della stanza successiva.

Coblas capdenals: a inizio di stanza si riprende una stessa parola o uno stesso gruppo di parole.