Allegoria

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Strettamente collegata alla natura simbolica della cultura medievale, l’allegoria costitutisce una vera e propria figura retorica, una «metafora continuata», con la quale si rappresenta un concetto astratto attraverso immagini concrete (ad es. selva / peccato; lupa /avidità, ecc.). Una prima codificazione dell’allegoria si deve alla cultura classica, greca e latina: in particolare Quintiliano, nella Institutio oratoria, definisce l’allegoria come una «continua metaphora» (IX, 2, 46), o meglio, come una serie ininterrotta di metafore («continuatis translationibus», VIII, 6, 44), attribuendole soprattutto una funzione oratoria. La teorizzazione dell’allegoria è stata in seguito ripresa dai maestri della retorica medievale (nel Candelabrum di Bene da Firenze, nella Rhetorica novissima di Boncompagno da Signa, nei commenti alla Rhetorica ad Herennium) attraverso la mediazione dell’esegesi biblica, che ha svolto un ruolo importante nel passaggio dell’allegoria da strumento di interpretazione a vero e proprio sistema della narrazione letteraria. È proprio a partire dall’attività ermeneutica condotta dalla prima Patristica (Filone di Alessandria, Clemente Alessandrino, Origene) che si sviluppa una concezione piú vasta dell’allegoria, intesa addirittura come ordine generale dell’universo. La Bibbia rappresentò in questo senso un autentico serbatoio di contenuti allegorici, e in senso lato simbolici: nel tentativo di coniugare il Vecchio e il Nuovo Testamento, i Padri della Chiesa introdussero una lettura «figurale» e tipologica delle Scritture, spesso utilizzando gli strumenti delle filosofie neoplatoniche e ellenistiche. Lo stesso Dante, nell’Epistola a Cangrande (XIII, 20) e nel Convivio (II, 1, 2), indicava che le «scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi»: quello letterale, «che non si stende piú oltre che la lettera de le parole fittizie»; quello allegorico, che «è una veritade ascosa sotto bella menzogna»; quello morale e quello anagogico. Nel riaffermare i valori religiosi e morali delle Scritture, il difficile incontro tra la cultura classica pagana e la teologia cristiana contribuisce a un progressivo consolidarsi dell’allegoria come forma simbolica e polisemica della scrittura, in quanto i «poetae gentiles» della classicità vengono letti nella loro veste metaforica e tipologica. Questo procedimento si afferma nel caso delle Metamorfosi di Ovidio, un’opera che soprattutto nel XII secolo ebbe una grande diffusione (con una numerosa fioritura di codici e commenti), o dell’Eneide di Virgilio, sottoposta a esegesi dai grammatici Servio e Macrobio (tra il IV e il V sec.) e da Bernardo Silvestre (metà del XII sec.), uno dei piú significativi rappresentanti della scuola di Chartres, che nel Commentum super sex libros Eneidos interpreta il poema virgiliano come un’allegoria delle età dell’uomo. Dopo le opere morali della tarda latinità, come il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella o la Psychomachia di Prudenzio, la definitiva affermazione dell’allegoria avviene nella poesia cortese dei secoli XII e XIII: un testo estremamente emblematico è il Roman de la Rose, il poema in antico francese iniziato da Guillaume de Lorris intorno al 1230 e in seguito portato a termine da Jean de Meun verso il 1270. Il procedimento allegorico viene sostituito in questo caso dalla personificazione di atteggiamenti psicologici e comportamenti umani, come l’odio, il desiderio, l’avidità, la vecchiaia ecc. Al centro di una profonda riflessione anche da parte di studiosi di questo secolo (Auerbach, Lausberg, Henry, Singleton, Pépin, ecc.), i significati teorici dell’allegoria hanno rivelato, in particolare nell’opera di Dante Alighieri, un contenuto tipologico e figurale attraverso il quale l’opera letteraria è in grado di creare corrispondenze e legami tra l’umano e il divino, tra l’immanenza e la trascendenza, tra la cultura pagana e quella cristiana.