Storie e Croniche del XIII-XIV sec.

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Nel Duecento la redazione delle cronache locali era di esclusiva competenza di monaci o di chierici, che, pur registrando con minuzia gli avvenimenti, finalizzavano la concatenazione dei fatti a cogliervi il disegno divino in un quadro universale. Un esempio di questo atteggiamento si riscontra nella Cronica di Salimbene de Adam. Nel secondo Duecento la fisionomia di questo genere letterario cambia radicalmente: appaiono le cronache scritte in volgare, destinate quindi ad un pubblico piú vasto, e prodotte in genere da uomini di media cultura impegnati nelle battaglie politiche che riportano i fatti ora con obiettività, ora con partecipazione commossa, attribuendoli, comunque, alla volontà dell’uomo. Il XIV secolo ci offre una ricca produzione di testi cronachistici che, pur nella grande varietà dei temi affrontati, presentano alcuni dati di fondo comuni, in base ai quali è possibile delineare un modello generale di riferimento. In primo luogo, è da notare come questi testi non si propongano mai di inserire gli eventi locali di cui si occupano in un quadro complessivo, in un contesto piú ampio che superi l’orizzonte municipale. Vengono quindi a mancare sia una descrizione sia un’interpretazione propriamente «storiche» dei fatti narrati, che rimangono fenomeni isolati e senza spiegazioni che non siano quelle collegate alle caratteristiche casuali dei singoli protagonisti o alla volontà di Dio. In secondo luogo, è comune a tutti i cronisti trecenteschi un atteggiamento dichiaratamente di parte, che è incapace cioè di sollevarsi al di sopra delle passioni politiche e di sviluppare un’analisi imparziale degli eventi e dei protagonisti. Infine, un terzo dato comune consiste nella povertà del volgare italiano che, se si escludono i casi dei cronisti fiorentini e dell’Anonimo romano, nel resto d’Italia non sa uscire dallo schematismo e dalla monotonia di una prosa dal lessico limitato e dall’andamento goffo e stilisticamente trascurato. Fanno eccezione, come abbiamo detto, il vivacissimo volgare romanesco dell’Anonimo e l’efficace ed elegante toscano di Dino Compagni e di Giovanni Villani. In quest’ultimo, poi, affiora a tratti anche l’ambizione di ampliare il respiro del suo racconto restituendolo a una dimensione piú larga di quella fiorentina (la sua Cronica comincia addirittura dall’episodio biblico della torre di Babele). Ma il personaggio di maggior rilievo è senza dubbio quello di Dino Compagni che, pur non uscendo mai dai limiti di una visione municipale e di parte, introduce nella sua rappresentazione una capacità di analisi psicologica e un pessimismo di fondo sulla natura umana che sembrano anticipare di due secoli certe caratteristiche di un altro grande suo concittadino, Niccolò Machiavelli. Infine, accanto alle cronache cittadine spiccano anche le numerose raccolte di memorie familiari (Donato Velluti, Giovanni di Pagolo Morelli), in genere di piacevole lettura per la cordialità del tono e i gustosi aneddoti che spesso contengono.