Latino e lingue romanze

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Non esiste nella storia dell’Occidente una vicenda che per intensità drammatica, dimensioni e conseguenze sia paragonabile al declino e alla caduta dell’impero romano. Tuttavia, questa immensa catastrofe, proprio a causa delle sue dimensioni, non ebbe i caratteri di un crollo repentino, ma fu piuttosto un processo che si protrasse per secoli, raggiungendo il suo culmine con la data canonica del 476 d.C. (deposizione di Romolo Augustolo) senza però che questo evento segnasse la fine assoluta e definitiva di una civiltà. Anzi, nel momento in cui si verificò, la deposizione dell’ultimo imperatore ebbe un’eco irrilevante, e nessuno dette all’evento il significato simbolico che poi avrebbe assunto per i posteri: esso in realtà si inseriva, come un episodio fra i tanti, nella lunga crisi che travagliava il mondo antico e che ebbe nelle invasioni barbariche la sua manifestazione piú appariscente, ma non certo la prima né l’ultima. Secondo alcuni studiosi, infatti, il periodo storico che noi chiamiamo «Medioevo» e che facciamo convenzionalmente cominciare dal 476 d.C. andrebbe addirittura retrodatato di almeno due secoli, poiché già al volgere del III secolo d.C. non sarebbe piú possibile parlare in senso proprio di «età classica» per la quantità e la qualità delle trasformazioni sociali, economiche e culturali intervenute a modificare profondamente il quadro del mondo antico. Certo è che, dal punto di vista linguistico, che è poi quello che qui ci interessa piú da vicino, i sintomi del fenomeno sono vistosi e segnalano l’esistenza di una crisi profonda del latino classico e, di conseguenza, della civiltà che lo aveva espresso, in epoche ben precedenti al 476 d.C. Ne rendono testimonianza numerosi documenti, a cominciare dalla celebre Appendix Probi, operetta risalente appunto al III secolo d.C., nella quale un anonimo grammatico cercò di ricondurre alla norma classica forme che se ne erano allontanate lungo una traiettoria che avrebbe infine condotto alla nascita dei volgari neolatini.

 

Naturalmente, il processo di disgregazione del latino classico si accentua e si accelera con il precipitare della crisi dell’impero romano. Non si deve tuttavia pensare a una frattura netta e collocabile temporalmente: anche le lingue, come la natura, non «fanno salti», e la loro evoluzione è sempre il frutto di processi di lunga durata, in cui una serie di cause opera in parallelo producendo interazioni ed effetti di feedback sempre di estrema complessità e non di rado contraddittori. Ciò è tanto piú vero nel caso dei volgari neolatini, la cui nascita non è determinata da un evento traumatico, ma deriva da una gestazione secolare in cui, attraverso spostamenti progressivi e spesso impercettibili, le lingue nuove si formano senza che questo voglia dire l’abbandono e la scomparsa di quella antica. In realtà, per un lungo arco di tempo il latino e il volgare sono convissuti l’uno a fianco dell’altro nella coscienza e nella pratica degli intellettuali e del loro pubblico: ancora fra il XIV e il XV secolo vediamo per esempio scrittori come Agnolo Poliziano, Jacopo Sannazzaro e Ludovico Ariosto ricorrere indifferentemente ai due idiomi, senza contare l’uso del latino giuridico, scientifico ed ecclesiastico continuato fino quasi ai giorni nostri. Anche per i volgari non romanzi, segnatamente quelli di area germanica e slava, l’influenza del latino fu decisiva: pur non avendo conosciuto direttamente la civilizzazione romana, o avendola sperimentata in modo superficiale e per periodi limitati, gran parte dell’Occidente non romanizzato si era incontrato con il latino attraverso l’evangelizzazione cristiana, adottandolo come lingua della religione e della cultura dall’Irlanda alla Scandinavia, dalla Germania alla Polonia, e facendone un modello di riferimento fondamentale. Avvenne cosí che l’Europa intera si riconobbe in questo patrimonio comune, in cui affondano le loro radici non solo le civiltà romanze, ma l’intera tradizione del mondo occidentale: alla metà del IX secolo Odofredo di Weissemburg, uno dei primi protagonisti della letteratura in volgare tedesco, osservava meravigliato come «tanti uomini illustri per saggezza, sapienza, santità, abbiano utilizzato tutte queste virtú a gloria di una lingua straniera, senza fare uso nella scrittura della loro propria lingua». È importante sottolineare come le considerazioni svolte fin qui smentiscano la tesi cara alla critica romantica, secondo cui la nascita delle lingue volgari fu il frutto di un’autonoma e spontanea elaborazione «dal basso», sorta dal profondo della coscienza popolare senza la mediazione della cultura classica e degli intellettuali di professione: insomma, una specie di slancio vitale che spazzò via una tradizione ormai fiacca e isterilita, sostituendola con forme piú libere e pronte ad accogliere la sensibilità di un mondo nuovo. Al contrario, la mediazione e il filtraggio ci furono, fino a produrre, soprattutto nell’area romanza, un bilinguismo in cui latino e volgare non si configuravano come opzioni alternative, ma come soluzioni complementari e integrate da utilizzare di volta in volta a seconda dei contesti, dei generi e dei destinatari. È evidente come un approccio di questo genere al problema delle origini renda estremamente difficile, e anzi, a rigore impossibile, stendere il certificato di nascita delle lingue neo- e postlatine, indicando con precisione «quando» e «dove» si è verificata la frattura tra latino e volgare: perché, semplicemente, questa frattura non c’è. Tuttavia, se è assurdo mettersi alla ricerca di qualcosa che non esiste, resta comunque importante individuare e studiare le prime testimonianze che documentano l’affermazione del volgare: avremo cosí la possibilità di fissare alcuni concreti riferimenti cronologici, geografici e linguistici che ci permetteranno di comprendere meglio il percorso compiuto da queste nuove esperienze della comunicazione e le tappe della loro successiva evoluzione.