La poetica

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Nella letteratura del Petrarca, tanto con le opere latine quanto con la produzione in volgare, un aspetto che immediatamente sale alla luce è l’elemento autobiografico: le Epistole, il Secretum e la Posteritati rappresentano da questo punto di vista la volontà di costruire un’immagine pubblica e ideale di sé, un’immagine che tuttavia non coincide con quella reale del poeta. Quella del Petrarca è una sorta di autobiografia interiore, condotta sul ritmo della tradizione classica: Cicerone, Seneca, ma soprattutto le Confessiones dí Sant’Agostino rappresentano le fonti piú evidenti di questo processo. Petrarca legge nell’opera agostiniana un messaggio di contemplazione penitenziale, a differenza di quanto aveva fatto Dante, piú attratto invece dal carattere didattico-moralistico delle Confessiones. La condizione che Petrarca lascia trasparire nella sua lettura di un testo cosí importante per la cristianità occidentale è quella del peccatore in preda al conflitto fra le passioni e la ragione, tra la realtà materiale e quella spirituale. La scrittura letteraria si indirizza allora verso una ricerca di sé: diventa diario intimo, confessione psicologica, desiderio di solitudine e di ripensamento. motivi dominanti, quest’ultimi, che facilmente convergono anche nell’opera in volgare: e in definitiva il Canzoniere vuole proprio rappresentare una specie di grande autobiografia in versi, traducendo aspetti della scrittura latina in un frasario di immagini, di linguaggio, di artifici che riprendono consapevolmente la doppia eredità dei provenzali e della lirica italiana duecentesca. L’elaborazione di una poetica, come quella petrarchesca, articolata attorno al nucleo autobiografico, alla riflessione e alla rivelazione della soggettività come chiave di lettura di tutta un’esperienza, ci consente di tirare le somme della vasta produzione di questo scrittore con un risultato ormai chiaro: la fondazione di una straordinaria poesia moderna, lirica e soggettivistica, frutto di una sensibilità inquieta e curiosa (e perciò classica) perché inquieti e curiosi erano anche i tempi storici in cui questa poesia veniva a calarsi. Dunque la poetica del Petrarca consente al cristianesimo problematico di giungere a un compromesso con l’ideale classicistico della perfezione formale: la riflessione sopra il dolore, il tema della fugacità del tempo e della inutilità dei beni terreni, sono elementi che ritornano costantemente nelle pagine latine e volgari del Petrarca. Ma se di vera e propria sintesi non si tratta, almeno il poeta ricerca una conciliazione tra due ragioni culturali opposte: la tensione cristiana che è presente nella pagina del Petrarca non possiede lo spessore ascetico e teologico di Dante, ma è semmai il tentativo di mondanizzare la ricerca dell’ethos nella verità della poesia, di rivestire la dimensione sentimentale e umana dell’amore per mezzo di un velo spirituale, appunto per questo artificiale. Ciò che conta è soprattutto la letteratura, la sua raggiunta autonomia dalle ideologie totalitarie, siano esse il cristianesimo o la filosofia: Petrarca abbandona la concezione teleologica e finalistica della storia, e riconduce il tempo entro il margine stretto dell’esistenza, della individualità. E su questa costruzione appare dominante la personalità filosofica di Platone, rivisitato alla luce di Sant’Agostino e di Seneca: il Secretum non a caso viene scritto in forma di dialogo recuperando lo stile della dialettica platonica, anche se con le dovute implicazioni da parte del De consolatione philosophiae di Severino Boezio. La poesia è prima di tutto ricerca, o meglio svelamento, di una verità profonda: Petrarca lo afferma in una delle Seniles (XII, 2) specificando che l’arte non è soltanto finzione ornamentale, bellezza esterna, ma è tutto ciò unito al tentativo di indagare una verità interiore, nascosta, profonda, una verità fatta di bellezza e di travaglio morale. In sostanza il merito della poesia petrarchesca, che è poi il genere letterario a maggiore diffusione nel Cinquecento, è stato quello di avere spostato l’attenzione della scrittura dalle speculazioni cosmologiche, teologiche e tecnico-scientifiche a un impegno morale e psicologico al centro del quale si trova la miseria dell’umanità, il travaglio profondo della vita, la contraddizione dell’amore visto ora come speranza e attesa, ora come delusione e inganno. Nelle Invictivae contra medicum (scritte tra il 1352 e il 1355) e nell’operetta De sui ipsius et multorum ignorantia (scritta nel 1367 e resa pubblica nel ‘71) Petrarca si oppone fermamente alle arti meccaniche, contro le quali ribadisce il primato della poesia, mentre nel secondo caso entra in polemica con quattro filosofi averroisti veneziani, li accusa di essere dominati dalla logica formale, di volere risolvere i dubbi morali dell’uomo attraverso lo strumento del sillogismo aristotelico. Assai diverso è l’atteggiamento del Petrarca scrittore in lingua latina rispetto a quello in lingua volgare: alle grandi ambizioni letterarie dell’Africa, un’opera alla quale lo scrittore aveva attribuito una posizione di assoluto rilievo nell’ambito della sua produzione, fanno riscontro le «rime sparse» in volgare italiano. Questo bilinguismo assume caratteri e prospettive strategiche assai precisi e dai contorni perfettamente delineati: il latino viene riscoperto e riletto attraverso un’operazione di scavo e restauro filologico, liberato quindi dalle artificiose soluzioni delle artes dictandi, cioè le tecniche adoperate dagli scrittori del XII e XIII secolo, infine depurato di qualsiasi riferimento speculativo. Petrarca lavora essenzialmente sul registro stilistico latino, attribuendo a questo codice una autorevolezza che a suo parere era andata perduta a causa del proliferare del volgare come lingua letteraria. Mantiene nei confronti dei classici un atteggiamento di rispetto (se non addirittura di culto) e di imitazione, forse pensando che dopo Dante non sarebbe stato facile ritagliarsi uno spazio letterario all’interno della poesia in lingua italiana. Dunque la produzione volgare del Petrarca assume connotati particolari: viene relegata a diverticulum (in una lettera senile a Pandolfo Malatesta il poeta dice di occuparsi di alcune poesie in volgare «pro quodam diverticulo laborum») cioè ad una attività collaterale, marginale e secondaria (ma solo in apparenza), circoscritta all’ambito privato. La poesia diviene in questo modo l’espressione di un io-lirico, di una individualità problematica, attanagliata dall’incertezza dell’esistere quotidiano: in questo senso, il Canzoniere rappresenta il luogo dove la dolorosa contemplazione della vita si mescola all’amore terreno, alla natura, alla memoria letteraria. È come se Petrarca operasse una riduzione, una svendita dell’esistenza attraverso il filtro della lingua letteraria: la monumentalità di Dante scompare dietro il linguaggio ristretto a una serie di parole chiave ripetitive e ossessive, concentrato, ridotto a una vaghezza, tipico dei fragmenta petrarcheschi. Al Canzoniere e ai Trionfi (anche questi in volgare) bastano poco piú di cinquecentocinquanta rime per costituire un frasario e una lingua poetica capaci di resistere nella tradizione italiana fino a tutto l’Ottocento. La poesia lirica dei Provenzali da una parte, e il dettato concettualmente piú complesso, geometrizzante e filosofico dello Stilnuovo dall’altra, sono i due termini con i quali le rime petrarchesche si confrontano immediatamente: il soggiorno per tanti anni presso i poeti della tradizione in lingua d’oc e vicino all’ambiente raffinato della sede papale contribuirono all’esercizio di una poesia colta e sofisticata, ricca nei temi e nelle trattazioni, che ebbe poi modo di rinnovarsi e maturare all’ombra di un’impalcatura ideologica e concettuale, quella stilnovistica, come dire che da un estemporaneo gioco di stile si passava a un piú rigido ordinamento mentale. A tutto ciò Petrarca univa un forte senso di astrattismo lirico, probabilmente di derivazione platonica, e connesso a una collocazione interiore dell’ispirazione: non tanto la natura esterna rappresentava il nucleo della poesia, quanto invece l’indefinito intersecarsi dell’interiorità.