Il Canzoniere

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Contrariamente a quanto è avvenuto nella storia della tradizione manoscritta dei testi danteschi, la ricostruzione della scrittura del Petrarca, i suoi interventi correttorî, la cronologia fisica delle redazioni e delle varianti, è un’operazione in ogni caso piú semplice, lineare e facilmente ripercorribile. Del filologo, Petrarca ebbe non soltanto il rigore e la costanza di un lavoro paziente, ma anche l’abitudine alla diversificazione delle scritture: la littera textualis destinata alle opere creative in latino e in volgare, la corsiva, in uso nelle lettere e negli appunti, la scriptura notularis per le glosse, le correzioni, il lavoro filologico in genere. Petrarca ha consegnato l’autografo dei Rerum vulgarium fragmenta al Vat. lat. 3195, un testo che è il frutto di un’esperienza compositiva complessa e straordinaria al tempo stesso, ultimo atto (ma il poeta postillò ancora talune indicazioni per un assestamento ulteriore) di un persorso letterario che coincide in tutto e per tutto con la vita dell’autore. Dal 1366 a questo codice lavorò come copista, sotto la dettatura del poeta, anche Giovanni Malpaghini da Ravenna, il piú importante tra i copisti che Petrarca utilizzò e che in precedenza aveva completato la trascrizione di un codice delle Familiares, purtroppo andato disperso. Ancora piú interessante, perché documenta il lavoro correttorio delle varianti interne ai testi, la loro collocazione, l’occasione e la cronologia a cui le liriche sono legate, è il codice Vat. lat. 3196, il cosiddetto «Codice degli abbozzi», in gran parte autografo, formato da un ventina di carte di varia grandezza, contenente non soltanto i Fragmenta ma anche poesie rifiutate e una parte dei Trionfi. Il criterio che unisce il «Codice degli abbozzi» alla versione (quasi) definitiva dell’opera obbedisce a un regolamento interno fatto di aggiustamenti, di tessere, cosí le ha chiamate Contini nel suo Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, di cui «Petrarca compone il suo mondo; come se gli fosse stato assegnato un totale fisso di materiali, e il suo lavoro si riduca a un optimum di collocazione». I numerosi livelli di scrittura dei Rerum vulgarium fragmenta corrispondono all’esigenza di guadagnare volta per volta una simmetria durevole, che viene però surclassata dall’incessante movimento diretto alla conclusione dell’opera: il Contini ha definito questo atteggiamento come un «sistema d’equilibrio dinamico», mettendo in luce anche un problema relativo al concetto stesso di opera d’arte, da intendere «come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima». Da questo punto di vista i Fragmenta contraddicono vistosamente l’idea dell’opera letteraria come una creazione miracolosa, momentanea e immediata, totalmente svincolata dal suo farsi, dal suo work in progress e la riportano piuttosto entro l’officina del poeta in cui ogni singola variante del testo avviene all’interno di un sistema di mutamenti.